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DIOCLEZIANO, Umberto Roberto


Sulle rive dell'Adriatico, non lontano da Salona, s'ergeva un imponente palazzo. Grandiose architetture di sontuosa residenza, chiuse dalle mura di una tetra fortezza: tra questi ambienti viveva l'anziano imperatore, ritirato tra i suoi ricordi.


La mia lettura

Quello che non ti aspetti quando stai preparando un esame. 
Non ti aspetti di incappare accidentalmente (sì, proprio accidentalmente, visto che quasi non me lo dimenticavo fra i testi di studio da acquistare!) in una lettura che ti coinvolga emotivamente ed intellettualmente, per il suo stile incalzante, praticamente narrativo, con tanto di suspence e colpi di scena, per i suoi personaggi che escono fuori dal grigiore anonimo della Storia, che, diciamolo, ha il brutto vizio di spogliarli della loro personalità. 
Non ti aspetti di chiudere momentaneamente a sera il manuale di Storia Romana (che temi costantemente ti faccia spoiler), tutta felice, perché stai per scoprire se alla fine Diocleziano riuscirà a rimediare (per l'ennesima volta, poveraccio!) ai casini dei suoi successori.  
Non ti aspetti che una ragazza nata e cresciuta in ambiente cattolico, si ritrovi a parteggiare o anche solo comprendere uno degli imperatori più noti per le sue persecuzioni contro i cristiani.
Ma è questo che succede se hai una testolina da lettrice, che smania sempre per saltare fuori.  
Incalzata anche dai tempi stretti dell'esame, questo libro, questo saggio, l'ho divorato. E vi assicuro che sfila via che è una bellezza. Okay, lo ammetto, un piccolo punto morto ce l'ha (altrimenti gli avrei dato anche il massimo come giudizio), ma è concentrato solo nei paragrafi finali della Parte Terza.     La Roma Antica esercita un notevole fascino su di me, la sua storia è l'unica capace di catturarmi, e il mio sogno inconfessato è ancora quello di poter leggere un romanzo (ma anche un buon saggio, a questo punto, mi sta bene!) sugli anni del (cosiddetto) primo triumvirato, del lungo e travagliato autunno della Res publica, gli anni di Cesare, di Pompeo, ma anche di Cicerone. 
Con il saggio di Roberto tuttavia, dobbiamo fare un vertiginoso balzo in avanti, siamo in età tardoimperiale,  Roma a quest'altezza cronologica è un concetto profondamente diverso, non ha più il significato che poteva ancora vantare gelosamente sotto Augusto. Perché il cuore di Roma, non è più Roma, non più le sue antiche istituzioni, non più il prestigio del senato, con cui gli imperatori, volenti o nolenti, avevano dovuto fare i conti.  

Roma, per questi uomini del III secolo, era dove si trovava l'imperatore; era l'impero tutto.

Uscita a fatica dagli anni di anarchia militare, l'istituzione imperiale era ancora in pericolo, e con essa la stabilità e la sicurezza dell'impero.   
Di sottile intelligenza, dalla logica consequenziaria, benché obscurissime natus (di nascita oscura, umile) Diocles il dalmata appare in questo tempo come l'ultimo vessillo di un mondo che sta rapidamente cambiando. 
Quando egli divenne Diocleziano, era perfettamente consapevole delle debolezze che minavano la solidità dell'impero. 

Il viaggio per Diocleziano era uno strumento di buon governo. Visitare i sudditi, verificare di persona le emergenze, avvicinare e conoscere gli uomini nelle province e al governo dell'impero. Nonostante la porpora, Diocleziano non pensò mai svolgere il suo mestiere di imperatore sottraendosi ai doveri della militia: disciplina, fatica, impegno e sacrificio personale. Era una scelta necessaria: temeva infatti l'Augusto la condizione del princeps clausus, del principe chiuso nel suo splendido palazzo, lontano da tutti e da tutto; e dunque debole, e sempre esposto agli intrighi dei suoi collaboratori e ai sicari di un usurpatore.

Questo passaggio ci dice alcune cose di notevole importanza su Diocleziano imperatore.  
Temprato duramente dai lunghi e terribili anni sotto l'esercito, Diocleziano era un uomo infaticabile, la velocità dei suoi spostamenti dice l'autore "impressiona", i suoi sudditi dovevano sentire costantemente la presenza della sua autorità (si comprende, dunque, il riferimento al rinnovato uso della porpora), qualunque eventuale tentativo di usurpazione doveva essere scoraggiato.
La mentalità del soldato rimase sempre radicata in lui, la disciplina, il rispetto della gerarchia, la lealtà fra compagni d'arme, sono gli elementi su cui egli fondò la tetrarchia, un collegio, vale a dire, di quattro principes, due Augusti, uno d'Oriente (Diocleziano), denominato Giovio e un Augusto Erculio (il rude, ma valente Massimiano) in Occidente e due Cesari loro affiancati, Galerio e Costanzo Cloro (padre del futuro imperatore Costantino). 
La prima tetrarchia, tuttavia, così come Diocleziano l'aveva concepita, non era ordinata a immagine di un quadrato, i cui vertici superiori sono posti sullo stesso piano. Il titolo di Augusto Giovio acquista dunque un significato preciso: c'è un unico vertice superiore, e su questo vertice si trova Diocleziano (Roberto ricorda in questo senso la "soggezione" di Massimiano nei confronti di quest'ultimo).   
Episodio di incredibile pathos e segno tangibile, indelebile della svolta che la tetrarchia ha impresso agli ultimi capitoli della storia di Roma è sicuramente la vittoria sull'acerrimo, irriducibile nemico dei Romani, l'impero persiano.
Lasciate che vi restituisca le esatte parole con cui l'autore non solo ci narra un pezzo di storia, ma, per un momento, un momento che vibra per la sua intensità, partecipa dei pensieri, della logica, degli ideali dell'imperatore Galerio.   

Ecco uno dei loro [dei persiani] più potenti dignitari venire al cospetto del Cesare, invocare la philanthropia degli Augusti, chiedere condizioni umane per i familiari del re, appellandosi alla mutevolezza della sorte. Questa allusione alla fortuna come arbitro capriccioso dell'equilibrio tra i due imperi aveva profondamente scosso Galerio. (...) Non c'era uguaglianza tra i due imperi: solo a quello dei romani era destinato come dono divino - come charisma - il dominio sul mondo. Nulla era lasciato all'arbitrio della fortuna, alle trame volubili del caso. Da sempre gli dei avevano scelto Roma, e gli imperatori avevano confermato questa supremazia con le loro imprese. 

Questi sono i valori, questo è il mondo per cui Diocleziano e i suoi colleghi si battono. Ed è in questa stessa ottica che prende forma la non poco sofferta decisione di infliggere le persecuzioni contro i cristiani. Sofferta non perché l'Augusto fosse restio alla violenza, ma per timore di sconvolgere un impero da poco pacificato e costantantemente minacciato dai barbari ai confini. Ma alla fine, sarà proprio per la salvezza dell'impero, che Diocleziano deciderà di compiere questo passo, sotto il segno di Terminus (terminus indica una fine, ma era anche la divinità "che garantiva la difesa di un ordine precostituito").  

La conservazione della politeia era fondata sulla pax deorum, sull'approvazione che gli dei concedevano alle azioni dei principi, e dei loro sudditi. Condizione che durava finché si prestava il dovuto ossequio alla religione, ai culti degli dei, alla tradizione degli antichi. (...) In questa interpretazione della pace finalmente restaurata, i cristiani rappresentavano un'offesa alle divinità, una minaccia costante alla loro benevolenza nei confronti dell'impero. 

Ma nel frattempo già si apprestavano i Vicennalia, i venti anni di governo dei due Augusti (benché esistesse uno scarto effettivo di un anno fra i due). Ed è in questa occasione che giunge a maturazione l'ultimo suggello alle riforme operate da Diocleziano.
Il primo maggio 305, nei pressi di Nicomedia, su un'altura, alla presenza della statua di Giove, egli rimise alla divinità i poteri di cui era stato investito vent'anni prima, il 23 novembre 283, in quello stesso luogo.
Nella storia dell'Impero Romano era un fatto inaudito.

Cedette l'impero, come fosse un'antica magistratura, e uscì di scena, venerato e celebrato come colui che aveva rifondato la pace e garantito la sicurezza dell'impero. 

Si apre così la seconda tetrarchia, destinata ben presto a sgretolarsi, a causa degli impulsi e delle insoddisfazioni che covavano nei giovani Massenzio (figlio di Massimiano), e, soprattuto, Costantino, sotto il quale l'Impero uscirà completamente trasfigurato. 

Avvincente come un romanzo, pregnante, incisivo nelle descrizioni di un tempo che possiamo solo tentare di ricostruire nella nostra immaginazione, Diocleziano è un saggio evocativo e convincente su una figura statuaria, che cela una mente inquieta, costantemente alla ricerca del consenso e della protezione degli dei, turbata dalla funesta ombra del fallimento.  


Diocleziano | Umberto Roberto | Salerno Editrice 2014 | 392 p. | euro 24,00
    

Parole nuove:


Il verdetto della Balena Parlante: ★★★★½


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